Il Piemonte è una terra si a vocazione industriale, ma soprattutto le cose migliori vengono dalla tradizione, ovvero dall’agricoltura per questo trovo molto interessante il nuovo libro del Ministro dell’agricoltura Luca Zaia dal titolo "ADOTTARE LA TERRA - PER NON MORIRE DI FAME" . A questo proposito di seguito troverete l’introduzione già da sola interessante sotto molti aspetti.
Nel Pianeta delle scimmie, uno dei film che all'epoca erano piuttosto di moda, il mitico Charlton Heston ingaggiava una battaglia mortale con il regime tecnologico che aveva preso il sopravvento sulla Terra.
I nuovi padroni avevanoun obiettivo: far dimenticare agli uomini i gusti, gli odori, i piaceri che costituiscono la nostra intima essenza. La scena madre del film si svolge in una cucina: nell'incontro decisivo con il capo dei rivoltosi, Heston si convince a passare dalla parte dei ribelli sedotto dal profumo di un sughino al pomodoro. Non un film indimenticabile. Ma esemplare per dare spessore a un certo modo di intendere il rapporto con i valori che contano. Tra questi, la terra. Al proposito, forse ricorderete anche una polemichetta, che lasciò peraltro traccia di sé, innescata dallo scrittore Pietro Citati il quale, su un numero della «Repubblica» di qualche tempo fa, evocò la sua infanzia, l'epoca felice in cui, come scrisse, «i pomodori profumavano di sole». Ma già al tempo del grande Bergman del Posto delle fragole, la terra e i suoi frutti servivano come innesco della memoria, come pretesto per evocare la radice profonda dell'essere umano.
Insomma, tra uomo e natura, tra civiltà e terra non occorre riandare al tempo del Giardino dell'Eden per mettere in luce un sentimento di intima contiguità che ha, spesso, il grande merito di farci sentire in pace con noi stessi e, più di quel che si pensi, con gli altri.
Ma qualcosa sta accadendo. L'epoca del trionfo della tekné sta portando con sé la fine di una civiltà, l'epilogo di un modo di vivere. A me viene in mente che il mondo così come lo abbiamo immaginato per centinaia di anni sia come un bicchiere lasciato sul bordo di un tavolo, ma già sul punto di cadere, in un ralenti drammatico, ineluttabilmente destinato all'abisso.
Sembra prossima la folle caduta, l'impatto, l'impazzire delle schegge deflagrate nel caos.
Però il bicchiere, per ora, è soltanto inclinato. La moviola può attendere. Per ora.
Non ho mai creduto in un dio che, malvagio o burlone, si prenda gioco dell'umanità oppure ci voglia punire per i nostri errori. Sono radicato in una cultura religiosa che non avverte l'incombenza della vendetta divina. Semmai Egli, chiamatelo poi, se volete, Destino o Cosmo, ci lancia dei messaggi che servono per vivere meglio. Ciò che leggo in questi messaggi davvero sembra di inequivocabile interpretazione: bisogna incominciare a prendere sul serio
il nostro futuro. Bisogna tornare ad avere una visione.
Sta di fatto che mai come in questi ultimi decenni i cambiamenti sopravvenuti sono stati radicali e, per molti aspetti, sorprendenti. Non concordo con l'assunto terroristico di qualche estremista dell'ecologismo, sempre in grande spolvero nel sistema mediatico, che vive di iperboli e di esagerazioni: sono convinto che, per molti aspetti, la modernità sia stata capace di farci vivere meglio. Una parte cospicua degli esseri umani non soggiace al ricatto degli elementi naturali.
Una parte dell'umanità è diventata capace di riscaldarsi, di proteggere con maggiori attenzioni i propri cuccioli, di nutrirsi con buona consapevolezza. Conosciamo un po' di più il mondo che ci circonda e abbiamo scoperto medicinali che ci consentono una qualità della vita sconosciuta persino ai nostri padri e che ci aiutano nei momenti di angoscia legati alla malattia e al disagio fisico.
Ma è pur vero che la sensazione di perdersi lungo il cammino è forte e che le contraddizioni si sono acuite, in un drammatico contrappasso che riguarda l'intera umanità.
Mai come ora nascere da una parte o dall'altra del pianeta segna un'implacabile ingiustizia che rende incolmabile la differenza tra chi vive nella prosperità e chi nell'assoluta mancanza. Da una parte chi è costretto a curare l'obesità, sempre di più grave; malattia sociale dell'Occidente, dall'altra la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta che cerca di sopravvivere schiacciato dal bisogno di nutrirsi.
Da una parte lo spreco persino inconsapevole di risorse preziose, dall'altra gli effetti della desertificazione. Milioni di cittadini del mondo periscono, ogni giorno, perché non trovano cibo o acqua, mentre altri saccheggiano la terra in una corsa bulimica verso il Nulla.
Migliaia dei nostri bambini, quotidianamente, soccombono divorati dalla fame, nel silenzio collettivo, mentre altri bambini vengono mandati dai genitori a perder peso in palestre attrezzate. Un pezzetto esiguo dell'umanità divora il settanta per cento delle risorse, mentre il settanta per cento degli uomini si divide meno del trenta per cento delle risorse.
Per sfamare tutti gli esseri umani dovremmo moltiplicare la nostra produzione di cibo. Ma, così facendo, probabilmente, le ineluttabili logiche dell'economia renderebbero più poveri di quanto già lo siano i contadini del mondo ricco.
Intanto, il pianeta deve fare i conti con le sue paure: innanzitutto quelle legate a un mutamento climatico di cui nessuno riesce a fornire le prove ma che, nel frattempo, sta cambiando i connotati alle agricolture di più antica storia.
Le stesse che fronteggiano la crisi dello spreco e la concorrenza di Paesi che un'agricoltura così raffinata non ce l'hanno mai avuta e che quindi riescono a produrre a costi di molto inferiori ai nostri, scaricando i prezzi delle loro fortune sui campi francesi, italiani, spagnoli, greci e tedeschi in una crisi senza precedenti.
Molti bambini metropolitani non hanno mai visto un animale da stalla e, forse, neppure si immaginano come sia fatta per davvero una stalla. La plastica in Occidente è come una nuova pelle che copre cibi che nel frattempo hanno perduto i propri colori e i propri sapori, sostituiti da una lucentezza innaturale e quasi metafisica. È la lucentezza delle mele del supermercato, belle fuori e finte dentro.
Tutto questo ci deve spingere a una sorta di «mossa del cavallo», quella tattica del gioco degli scacchi che serve a rompere l'ineluttabilità di una partita. Occorre uno scarto. Anche di fantasia.
Una proposta. Un'intuizione. Il cuore mi dice che staremmo meglio se ricominciassimo dalla terra, se ritornassimo a «adottarla» come via di uscita per non morire nel nulla dei nostri centri commerciali e per uscire dal ricatto della fame. Un po' come in quel film con Charlton Heston, capace, finalmente, di esaltarsi per il gesto eversivo di un sugo fatto con il pomodoro fresco, magari raccolto nell'orto di casa. Una piccola grande eversione che potrebbe innescare, forse, mutamenti epocali.
Adottare la terra, per esempio, potrebbe rappresentare quel piccolo passo verso un nuovo patto sociale, in cui il singolo cittadino sia capace di ritornare ad assumersi una porzione di responsabilità vera, reale. Proviamo a pensare a un mondo nel quale ciascuno di noi potesse avere un pezzetto di orto tutto per sé da coltivare con le proprie mani.
Per prima cosa, potremmo ripensare la struttura urbanistica delle nostre città e così forse potrebbero ritornare a essere protagonisti dei nostri quarti! eri gli anziani e i bambini, che oggi sono pressoché scomparsi dalla vita e dalle scelte dei territori perché non fanno parte della popolazione che produce. Si potrebbero dare a luoghi familiari nuove funzioni che non pensavamo potessero avere: immaginate cosa significherebbe trasformare, dentro le nostre città, certe aree all'interno dei giardini pubblici in terreni da coltivare, parti di una filiera alimentare cortissima, davvero fisicamente prossima alle nostre case.
Poi, potrebbe prendere il via un imponente movimento educativo, perché qualche orto di sicuro nascerebbe persino all'interno delle scuole: pensate a quanti bambini, per la prima volta, forse, sarebbero in condizione di vivere realmente il mutare delle stagioni. Così nuove generazioni ripenserebbero il proprio tempo: non più secondo l'immagine vorticosa e un po' feroce dettata da internet o dagli sms, ma secondo lo svolgersi, lento e paziente, delle stagioni.
E, sempre a proposito della pazienza necessaria per vivere, potremmo fin da ora ritornare a ragionare sul modo che abbiamo, un po' schizofrenico, di fare la spesa. Quell'incedere nevrotico nell'ipermercato alla ricerca della lattughina croccante e rugiadosa. Ma alle sette di sera l'insalata non può più avere né quell'aspetto né quel gusto. L'esito finale dell'illusione di poter scambiare il nutrirsi con il consumare è lo spreco. In un mondo nel quale oltre un miliardo di cittadini soffre la fame e una parte della popolazione di fame muore, in Italia si butta in discarica l'equivalente di seicentomila pasti al giorno.
Di recente, un grande quotidiano ha commentato la notizia che nella sola Milano ogni anno si gettano via tonnellate e tonnellate di pane. E al pane è sotteso un valore simbolico che interroga pesantemente le nostre coscienze.
La filiera cortissima che deriverebbe dall'adottare ciascuno di noi un pezzo di terra stride con la situazione attuale nella quale un cibo, prima di arrivare sui nostri piatti compie, mediamente, un periplo di 2500 chilometri.
Nomadismo del cibo? Sì, ma non solo. Un carico di cereali, prima di giungere a destinazione, riesce a essere venduto cinque, magari sei volte, perché nulla sfugge alla speculazione internazionale e il valore del lavoro dei contadini viene equiparato a una qualsiasi attività finanziaria volta all'arricchimento di questo o di quel gruppo di potere che,
magari, nulla ha a che vedere con l'agricoltura. Tutto questo significa che una parte dell'economia nega nei fatti che la terra e i suoi prodotti rappresentino un diritto naturale di ciascun abitante del pianeta.
Qualcosa dobbiamo fare subito. Per questo, nel corso del primo G8 dei ministri dell'Agricoltura, l'Italia si è battuta e ha ottenuto che i grandi del mondo si impegnassero a eliminare dalla speculazione internazionale i prodotti della terra. Ecco un primo modo per attivare concretamente quell'«adozione» di cui vi sto parlando.
Nel quadro drammatico che si sta delineando in questa nostra epoca di grandi mutamenti, ci sono errori che non possiamo più permetterci di commettere. Il più grande, e forse il più esecrabile, si perpetra ai danni del continente più povero. Le pagine scritte dall'economista zambese Dambisa
Moyo a difesa della sua Africa non possono lasciarci indifferenti. La Moyo ha usato parole di fuoco, sulle quali avremo modo di soffermarci più in dettaglio, contro il circo mediatico-spettacolare che ciclicamente si mobilita allo scopo di aiutare l'Africa. Sono, afferma giustamente la zambese, iniziative che rendono molto di più a chi le organizza che alle vittime della fame. E hanno, dice Moyo, la straordinaria capacità di danneggiare ulteriormente la situazione di quei popoli. Miliardi di dollari che questa carità pelosa raccoglie vanno a finire nelle tasche degli organizzatori o, peggio, in quelle onnivore e grondanti sangue dei dittatori che quel continente mettono a ferro e fuoco. Parafraso la soluzione della Moyo e la inserisco nella mia ricetta politica: non ci saranno aiuti all'umanità dolente senza un processo che responsabilizzi, fino all'estremo confine del mondo, ogni singolo cittadino del pianeta.
Quel che si dice dell'Italia, alla fine, vale per tutti: ciascuno deve essere messo in condizione di decidere del proprio destino e di fabbricarselo secondo la propria storia, la propria identità, la propria capacità di sfruttare le risorse che possiede alla nascita. L'Africa va aiutata non a intascare soldi che inevitabilmente servono a ingrassare ben altri soggetti, come la storia di questi decenni sta lì a dimostrare, ma a rimettersi in piedi facendo leva sulle proprie ricchezze e sulle proprie forze.
È esattamente quel che ho detto all'indomani dei gravi incidenti avvenuti qualche tempo fa in Calabria e che, per un momento, hanno mobilitato l'attenzione dell'opinione pubblica sulla questione della clandestinità e dell'accoglienza: non c'è alternativa alla legalità che non sia la fine dello Stato così come lo conosciamo e che si fonda sulla sovranità territoriale.
A questa visione si oppone una spinta contraria davvero assai potente. Un esempio del clima culturale in cui viviamo è la discussione sugli organismi geneticamente modificati.
Senza coinvolgere il governo di cui faccio parte e che non ha ancora aperto il dossier, più volte e in molte sedi mi sono espresso contro l'uso degli Ogm nell'agricoltura
italiana. Da più parti, ovviamente, mi sono piovute addosso contumelie e non mi sono stati risparmiati gli insulti.
Questo povero Paese è davvero disabituato a discutere, preso com'è dal vortice di un perenne referendum per cui sono accettabili esclusivamente le affermazioni apodittiche
che devono, preferibilmente, culminare con un «sì» o un «no». La riflessione non è di casa dalle nostre parti.
Mi prendo un po' di tempo e cerco di motivare quelle che a me paiono, invece, questioni di semplice buon senso.
Parto da una premessa: non ho preconcetti o ideologie da difendere. Non sono contrario in via preliminare al nucleare o agli inceneritori. Dunque, nemmeno alle tecnologie.
Le utilizzo quando mi servono e ritengo di essere un discreto navigatore della Rete.
Ma, appunto, utilizzo quel che mi serve.
Dunque, a proposito degli Ogm mi sono posto la domanda: servono questi organismi in un Paese come il nostro che fa della specificità dei suoi prodotti un suo irrinunciabile punto di forza e, insieme, di differenza? Mi porrei lo stesso quesito se dovessi prendere la stessa decisione nel Sahel, dove un grano capace di sopravvivere alla mancanza d'acqua risolverebbe la vita di quei popoli? Dove potrei utilizzare, in Italia, quel seme «meticcio» in un territorio come il nostro lungo e stretto, in buona sostanza in un contesto dove sarebbe persino impossibile la sperimentazione perché il chicco modificato potrebbe entrare in contatto con gli altri che Ogm non sono? Insomma l'Italia, che si nutre di biodiversità, ha bisogno di dotarsi di una tecnologia del genere, che, in sé, contiene una grande forza omogeneizzatrice? C'è poi un'altra questione che mi rende sospettoso fino all'avversione. Non ho nulla contro le multinazionali, ma sono convinto che esse debbano fare i propri interessi e ho constatato che questi interessi spesso vengono conseguiti da questi giganti economici e finanziari al di là di ogni altra considerazione. Considerazioni che, invece, la politica deve fare per «dovere d'ufficio ». Diciamolo: per rimanere fedele alla sua vocazione. La più importante di tali questioni riguarda la proprietà dei semi.
Se, per disattenzione della politica, le multinazionali diventassero un domani proprietarie di tutti i semi esistenti in natura, esse, in pratica, diventerebbero padrone di vasta parte del creato. A noi esseri umani non rimarrebbe che il potere d'acquisto di un prodotto: si creerebbe un vulnus irreparabile per l'umanità intera. Ammesso, e non concesso, che ci possano essere dei vantaggi iniziali per chi riuscisse ad accedere a queste tecnologie, il gioco non varrebbe la candela. Perché per ottenere quei vantaggi occorrerebbe cedere i «diritti» sulla natura.
Last but not least, constato, girando per il mondo, che esista verificando un fenomeno che deve costringerci a riflettere. Se entrate in un supermercato britannico, vi accorgerete che vi è una netta divisione tra i prodotti Ogm e l'«organic food». Ovviamente, quest'ultimo costa un po' di più. Del resto, anche il consumatore italiano da questo punto di vista ci invia segnali inequivocabili: oltre il sessanta per cento è disposto a spendere di più per mangiare meglio e il dieci per cento compie i propri acquisti nei farmers' market. Insomma, dal contadino di fiducia.
Una grande parte dei nostri cittadini ci chiede accesso al cibo «naturale».
Per tornare all'Inghilterra, mi pare di poter concludere che la tendenza è quella di dividere i consumatori tra coloro che hanno possibilità economiche, e dunque per i quali si apre la via del mangiare naturale, e gli altri, i meno abbienti, che devono «accontentarsi» del prodotto Ogm. Uno squilibrio sociale inaccettabile ovunque, ma soprattutto nel cosiddetto Primo Mondo che da tempo ha acquisito il principio che la qualità del cibo è un diritto naturale e irrinunciabile.
Ho qualche conto in sospeso con alcuni modelli di modernizzazione che vengono proposti «a prescindere», come avrebbe detto Totò. E non mi convincono i liberisti a oltranza che non dicono che alcune teorie oggi spacciate come portatrici di sviluppo sono nate quasi due secoli fa, quando il mercato di riferimento era a cinque chilometri dalla piazza del paese, non a ventimila chilometri di distanza, come oggi, e non era esposto alla fragilità che deriva da un dumping implacabile.
Nonostante questo, sono certo che con la modernità si debba fare i conti e che le innovazioni, come è sempre accaduto nella storia, possano davvero aiutarci a vivere meglio.
La condizione per tutto questo, però, è che non scompaia chi, da sempre, accompagna uno dei gesti più semplici e più nobili. Se ogni giorno beviamo un bicchiere di vino o spezziamo il pane lo dobbiamo ai milioni di contadini che da sempre hanno adottato la terra e che ci insegnano il metodo della vita. Che poi è la pazienza del tempo.
Ma anche lo stupore di un semplice grazie.
Sono poche righe che fanno comunque meditare, Al Ministro Luca Zaia un mio personale ringraziamento per tutto quanto ha fatto, e farà fino al giorno del suo insediamento come Governatore della regione Veneto. Finora nessun Ministro si era così impegnato a favore della nostra agricoltura, del Made in Italy, contro gli Ogm, contro la contraffazione alimentare, le quote latee, etcc….
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