Le Officine di Savigliano, ora Alstom, a Torino rimangono ancora segni del passaggio di ques’industria di quando era Fiat Ferroviaria Savigliano, ecco la storia fino alla cessione da parte della Fiat alla Alstom:
Nel decennio preunitario Savigliano è investita dai progetti di modernizzazione infrastrutturale promossi da Cavour: collocata tra Cuneo e Saluzzo, la cittadina è nodo centrale di smistamento della strada ferrata che percorre il Piemonte meridionale. A testimonianza della sua rilevanza strategica, nel 1859 viene scelta come sede di una grande officina per la riparazione di materiale ferroviario.
Nei decenni successivi il passaggio della rete ferroviaria piemontese in mano allo Stato e poi alla Società ferrovie alta Italia determina il declino dell'officina.
Il contesto territoriale resta tuttavia favorevole all'insediamento di una impresa che ne raccolga l'eredità e nel 1880 si costituisce la Società nazionale officine Savigliano (Snos)
La società, dotata di un capitale iniziale di 1 milione, nasce grazie al decisivo intervento straniero: belga è la E. Rolin, storica produttrice di materiale ferroviario, così come belga è la maggior parte dei capitali investiti, mentre minoritario è l'apporto italiano e in particolar modo locale.
Da subito la società realizza vetture miste e carri bagagli ma anche gru, ponti, travate e tettoie.
Nel 1889 la Snos assorbe un'impresa concorrente con sede a Torino, la Società ausiliare strade ferrate tramvie e lavori pubblici, anch'essa dotata di un capitale prevalentemente belga.
Con quest'operazione la Snos assume i tratti peculiari di una società dalla doppia fisionomia, localizzativa e merceologica: nello stabilimento di Savigliano viene concentrata la produzione di materiale ferroviario e la grande carpenteria, mentre a Torino le officine di corso Mortara ospitano la realizzazione di macchine e impianti per la produzione di energia elettrica e più in generale l'attività elettromeccanica.
Per assecondare la crescita dimensionale, la Snos aumenta il capitale sociale da 1 a 2,5 milioni ed emette 4.900 obbligazioni, operazione ancora una volta sostenuta da capitali belgi.
Forse proprio l'origine straniera delle risorse spiega l'apparente insensibilità della Snos al crack edilizio-bancario che tra il 1889 e il 1892 travolge il sistema creditizio torinese e nazionale i suoi centri nevralgici.
Negli anni Novanta la Snos cresce e consolida il proprio prestigio internazionale, intensificando anche l'attività in campo elettromeccanico.
Ai primi del Novecento si afferma sul piano tecnologico, grazie a un nucleo dirigente di ingegneri come Ottavio Moreno, direttore generale per 35 anni, Michele Fenoglio, presidente dagli anni Ottanta dell'Ottocento al 1927 e Guido Fornaca, direttore tecnico della sezione elettrotecnica fino al 1906, personaggi rappresentativi del ruolo di alta formazione scientifica che ricopre Torino, nella seconda metà dell'Ottocento, specie nei settori meccanico ed elettrico (Museo industriale e scuole di formazione professionale).
Decisivo per lo sviluppo della Snos è poi il ruolo degli operai altamente qualificati, in prima fila nelle agitazioni dei lavoratori torinesi nella crisi del 1907.
La crescita della Snos presenta tuttavia limiti strutturali: il lavoro su grandi commesse, il confronto con una domanda instabile, una produzione dai lunghi cicli di lavorazione, che esigono consistenti immobilizzazioni di capitali.
Lo Stato poi, principale committente della società soprattutto dopo la nazionalizzazione delle ferrovie del 1905, è un cliente redditizio ma non sempre affidabile e i gruppi internazionali con cui competer sono più solidi finanziariamente.
Ne deriva un'endemica fame di liquidità, testimoniata dai due aumenti di capitale del 1906 e del 1911 (da 2,5 a 4 e poi a 6 milioni), segno di una difficoltà nella programmazione di medio periodo: le risorse finanziarie non sembrano avere l'elasticità necessaria per affrontare l'instabilità della domanda, ed il potenziamento delle strutture produttive impone la ricerca di nuovi lavori per mantenere gli impianti a pieno regime e ridurre i costi.
Tra il 1912 e il 1915 gli utili Snos diminuiscono per il calo delle ordinazioni delle Ferrovie dello Stato, e per lo scoppio della "guerra europea", (rincaro delle materie prime, denaro e maestranze).
L'ingresso dell’Italia nel conflitto, nel maggio 1915, offre una soluzione alle difficoltà della Snos. L'ingente mole di ordinazioni affluite alla società elettromeccanica consente lo sfruttamento pieno delle potenzialità degli impianti, anche se le nuove esigenze belliche determinano l'ulteriore estensione di una già molto diversificata attività produttiva.
I consistenti profitti di guerra consentono la ridistribuzione di cospicui dividendi e vengono in parte reinvestiti nei tre aumenti di capitale che portano il fondo sociale tra il 1917 e il 1920 da 6 a 30 milioni di lire.
La Snos muta la composizione del capitale sociale: gli aumenti di capitale del 1917 e del 1918 sono ancora sottoscritti con il largo concorso della Comit, ma nei primi anni Venti un cospicuo pacchetto azionario risulta controllato dall’industriale conserviero Ernesto Ferro e da suo cognato Amedeo Poli.
Ma l'ampliamento delle risorse finanziarie viene deciso senza reale programmazione, sull'onda delle urgenze imposte dal conflitto, e l'adeguamento del capitale appare una soluzione forzata per rispondere alla crescita dimensionale degli impianti e alla abnorme varietà delle produzioni.
Nel primo dopoguerra l'ampliamento degli scopi sociali è anche determinato dal tentativo di ridurre la dipendenza dalla committenza pubblica e in particolare dal regime fascista. La dirigenza non dimentica il suo ruolo nella crescita della società, con la domanda di forniture militari, e apprezza l'azione repressiva nei confronti del movimento operaio, promotore nel biennio rosso di agitazioni intense e prolungate. Ma lamenta anche da parte del governo un atteggiamento di chiusura: la committenza si irrigidisce nell'applicazione dei capitolati, impone collaudi severi, liquida gli impegni con lentezza; la rivalutazione della lira penalizza la Snos, e la pressione per la formazione di cartelli siderurgici determina il rincaro di materie prime.
Alla fine degli anni Venti la Snos conosce una fase di flessione. A partire dal 1931 la situazione migliora grazie alle vendite sui mercati esteri e in particolare in Unione sovietica, dove la Snos penetra sulla scia dei primi accordi commerciali stretti dalla Fiat.
Con la crisi del '29, il tracollo dei finanzieri torinesi Ponti e Panzarasa e del gruppo SIP che a loro fa capo lascia alle forze imprenditoriali sopravvissute l'occasione per impadronirsi di aziende di grandi prospettive. La Snos è in prima fila nel tentativo, fallito, di accaparrarsi la SIP e in quello, dall'esito invece positivo, di acquisire l'Italgas.
Nei due sindacati costituiti per l’occasione la Snos si associa con Agnelli, Frassati e Virginio Tedeschi, proprietario della Ceat, società produttrice di gomma, cavi e conduttori elettrici. Si prepara l’ingresso di Tedeschi nella Snos: in occasione dell'aumento di capitale del 1937 (da 30 a 45 milioni) Tedeschi appare uno dei principali azionisti insieme ad Ernesto Ferro.
La Snos riprende a crescere grazie alle ordinazioni militari legate alla guerra in Etiopia. Ad altre esigenze belliche si devono i due aumenti di capitale (da 60 a 100 milioni) decisi nel pieno della Seconda guerra mondiale, tra 1941 e 1945.
Tra il 1944 e il 1945 gli stabilimenti della Snos sono colpiti dai bombardamenti alleati e dai danni provocati dalle mine dei guastatori tedeschi in ritirata, tanto che si decide di trasferire temporaneamente parte delle produzioni in alcune officine di Borgosesia.
All'indomani della Seconda i danni patiti dagli stabilimenti durante il conflitto sono meno gravi di quanto temuto, mentre le ordinazioni tornano consistenti, soprattutto in relazione a lavori di riparazione dei ponti, dei veicoli ferroviari e degli alternatori necessari alla ripresa dell'erogazione nel Centro e Sud Italia.
Ma è altresì chiaro che, mentre la situazione produttiva e industriale appare soddisfacente, è il versante finanziario ad allarmare. L'enorme sforzo compiuto durante la guerra per rispondere alle consistenti e diversificate commesse è stato affrontato con l'aiuto delle banche e gli oneri dei debiti aggravano gli storici squilibri di bilancio.
Alla disperata ricerca di capitali freschi, la Snos ricorre da una parte ad una serie di aumenti di capitale, sostenuti in gran parte da Ferro e dalla Ceat, e dall'altra agli aiuti statunitensi per la Ricostruzione. Nonostante le rassicurazioni della dirigenza, la frenetica richiesta di capitali non accenna a fermarsi, mentre destano allarme i primi licenziamenti.
Il Consiglio di gestione, un organo di rappresentanza operaia insediatosi nel 1950, oppone al ridimensionamento dell'impresa iniziative di tipo produttivistico ispirate al Piano Cgil del 1949, entra nel merito delle questioni, propone soluzioni concrete. Si mobilita anche il mondo politico. I tagli al personale, però, non si fermano e l'impresa appare sempre più in crisi.
Nel giugno del 1951 gran parte del CdA rassegna le dimissioni, ma il rinnovamento appare più formale che sostanziale e i nuovi entrati appaiono prestanome dei vecchi proprietari.
L'impresa dapprima entra in amministrazione controllata; quindi, nel gennaio del 1952, annuncia la concessione di un mutuo di 2 miliardi da parte dell'IMI a patto di un azzeramento del capitale di 1 miliardo e successiva ricostituzione a 600 milioni.
Nella crisi bruciano rilevanti capitali, appartenenti soprattutto a piccoli risparmiatori, ed una quota cospicua di posti di lavoro: dal dicembre 1949 al dicembre 1952 gli occupati nei due stabilimenti passano da 4.500 circa (numero massimo di tutto il dopoguerra) a 1.346.
Il tracollo Snos presenta anche clamorosi risvolti giudiziari: il primo giugno 1952 vengono spiccati alcuni mandati di cattura per gli ex componenti del CdA Snos, tra cui Tedeschi, Ferro e il banchiere Fernando Pellegrini.
Tra i diversi capi di imputazione, i principali riguardano il falso in bilancio e l'illecito trasferimento a condizioni di favore dalla Snos alla Ceat di grandi quantità di rame, tra l'altro acquisito con i fondi statunitensi. L'istruttoria si concluderà nel 1955-56 con il "non luogo a procedere".
L'esposizione con le banche dell'immediato dopoguerra accentua la storica carenza di liquidità, né peraltro la dipendenza dal sistema creditizio appare superata all’indomani della crisi, e condizionerà la vita dell’azienda anche nel successivo ventennio.
L'annullamento e la ricostituzione del capitale sociale non producono in realtà mutamenti radicali negli assetti proprietari: la novità è costituita dall'ingresso della Fiat e della Cogne, accanto ai vecchi proprietari Tedeschi e Ferro, ancora sottoscrittori della maggior parte delle nuove azioni.
Negli anni Cinquanta la Snos si riprende lentamente e le sue performance si confermano di alta qualità, come testimoniano i successi nella grande carpenteria, dall'aviorimessa di Caselle alla ricostruzione della guglia della Mole antonelliana (1961) allo stabilimento Fiat di Rivalta.
Ma la sottocapitalizzazione continua ad affliggere la società: nonostante i ripetuti aumenti di capitale il bilancio è appesantito dagli oneri passivi legati ai finanziamenti concessi dalle banche, finché nel 1962 l'IMI converte in azioni il debito acceso dieci anni prima ed entra in possesso di 1,4 milioni di quote sui 5,2 milioni totali.
Negli anni Sessanta, inoltre, mentre cala la domanda di beni strumentali, lo stabilimento di Savigliano è penalizzato dalla contrazione delle ordinazioni da parte delle Ferrovie dello Stato.
La situazione finanziaria è aggravata dallo sciopero nazionale del 1966 (60.000 ore di lavoro perse) e dalla crescente concorrenza delle aziende a partecipazione statale: tra il 1966 e il 1967 la Snos è costretta a ricorrere a due nuovi mutui IMI e il bilancio del 1968 denuncia perdite per più di 190 milioni, salite l'anno successivo a 600.
Nel 1970, con una scelta da più parti suggerita già durante i terribili mesi della crisi di inizio anni Cinquanta, si decide pertanto di separare i due stabilimenti di Savigliano e di Torino affinché ognuno sviluppi la propria specializzazione e consegua un più alto livello di produttività.
La Snos si concentra sulle produzioni elettromeccaniche realizzate nel capoluogo, mentre il complesso aziendale di Savigliano passa in mano alla Fiat. Le vicende dei due stabilimenti facenti capo ormai a due società diverse, a questo punto si divaricano.
La Snos, ancora in mano alla Ceat, affronta una fase di profonde difficoltà aggravate dalla crisi petrolifera, dall'inflazione e dall'aumento dei costi della manodopera. L'impresa si converte quindi da produttrice di grandi macchinari elettrici ed elettromeccanici in fornitrice di servizi di qualificata assistenza tecnica e riparazione.
Inoltre viene rilevata da alcune grandi aziende dell'elettromeccanica nazionale e internazionale come la General Electric - l'azionista di maggioranza -, la E. Marelli e la Ansaldo. Il bilancio torna in attivo e negli anni Ottanta l'impresa diventa leader del settore in Italia e nel Mediterraneo, con accordi di licenza con i principali costruttori nazionali e internazionali.
Nel 1990 la Snos passa nelle mani del gruppo Fornara: la nuova proprietà inserisce l'impresa, insieme ad altre società controllate, in un "polo-energia" capace di stabilire rapporti privilegiati con l'Enel, le cui ordinazioni coprono il 60% del fatturato. Ma nel 1993, in seguito alla crisi del gruppo Fornara, la società viene acquisita da una nuova cordata di imprenditori piemontesi.
A partire dal 1998 il crollo delle ordinazioni Enel determina nuove gravi difficoltà per la Snos, che nel 1999 progetta un ritorno all'originale vocazione di impresa costruttrice di macchine.
L'impresa passa dunque in mano alla Savigliano spa.
Lo stabilimento di corso Mortara viene abbandonato sia perché sovradimensionato rispetto al personale impiegato, ridotto a circa 300 unità, sia perché l'area è coinvolta in un progetto di riqualificazione della zona detta "spina 3", nell'ambito del Piano regolatore.
Del vecchio stabile è stata mantenuta la facciata, soggetta al vincolo delle Belle Arti in quanto raro esempio sopravvissuto a Torino di edilizia industriale di fine Ottocento. Il resto dell'immobile è stato ceduto all'impresa Rosso che insieme al Comune ha promosso una ristrutturazione dell'area per destinarla a "spazio multiuso".
Fiat affronta la crisi della Ferroviaria Savigliano attraverso radicali interventi di bilancio: il capitale è svalutato da 1 miliardo a 400 milioni e quindi riaumentato a 2,5 miliardi,e ribattezza l'azienda Fiat Ferroviaria Savigliano (FFS), integrandola nel nuovo settore di imprese Fiat denominato "Prodotti e sistemi ferroviari" e comprensivo di altre partecipate come la OMECA di Reggio Calabria, la Ferrosud di Matera, la IM spa Intermetro di Roma e la società argentina Fiat Concord SAIC.
Il polo della FFS viene poi potenziato concentrando nello stabilimento di Savigliano attività in campo ferroviario prima svolte a Torino (Materferro) e a Milano (OM).
I risultati sono incoraggianti: alla fine degli anni Settanta la società si distingue per alcuni brillanti risultati tecnici come l'elettrotreno ad assetto variabile ETR 401, meglio noto come Pendolino; nel 1980 il capitale è aumentato a 5 miliardi e si registra il massimo livello occupazionale dall’inizio della gestione Fiat; inoltre la FFS acquisisce partecipazioni in alcune società ferroviarie del gruppo Fiat (OMECA, Ferrosud, IM Intermetro) ed assume dunque la connotazione di una holding del settore.
Negli anni Ottanta l'impresa incontra alcune difficoltà legate alla crisi del mercato argentino e alla discontinuità delle commesse da parte delle Ferrovie dello Stato.
L'azienda reagisce prima con la proiezione su altri mercati esteri e poi, lungo gli anni Novanta, lo sfruttamento delle opportunità offerte dall'alta velocità.
Nel 2000 la Fiat ha ceduto l'impresa al gruppo francese Alstom, uno dei leaders mondiali nelle infrastrutture per l'energia e i trasporti.
Fonte: Storia e Cultura dell’Industria
1 commento:
Complimenti ben fatto.Tutte le volte che leggo Savigliano o Snos mi palpita il cuore.Ho dato 30 anni 1970/2000 al lo stabilimento di Torino. Giuseppe
Posta un commento