Il Fascismo, nel 1922 la vittoria del fascismo muta radicalmente il quadro di riferimento delle relazioni sindacali e di lavoro.
Uno dei cardini del programma mussoliniano consiste infatti nel superamento della lotta di classe in nome dell'interesse superiore della comunità nazionale e dello Stato: a questo scopo i sindacati "democratici" vengono emarginati e sostituiti con i "sindacati nazionali", emanazione diretta del movimento fascista.
Una simile prospettiva non può che rafforzare la simpatia che il fascismo ha raccolto tra gli imprenditori quando è giunto alla ribalta impegnandosi a ripristinare l’ordine insidiato dal "sovversivismo rosso".
Non mancano tuttavia, tra di essi, coloro che guardano all’iniziativa dei vincitori nel campo sindacale con circospezione e crescente perplessità.
L'adesione dei lavoratori all'organizzazione confederale, si fa notare ad esempio nei circoli della Lega industriale torinese, è rimasta elevata a dispetto di minacce e ritorsioni (nel dicembre 1922 la sede di corso Siccardi viene incendiata e alcuni dirigenti massacrati), mentre la ricerca del favore delle maestranze induce spesso i sindacati fascisti ad avanzare richieste esorbitanti.
Alla luce di questa esperienza, la prospettiva di dover fronteggiare un sindacalismo aggressivo e sostenuto dal potere politico suscita diffusi timori.
Anche per questo molti industriali torinesi, compreso Giovanni Agnelli, seguitano a mantenere rapporti e siglare accordi con la Cgdl e le commissioni interne sino agli inizi del 1926, meritandosi per questo l'accusa di nutrire "scarso spirito fascista".
Pochi mesi prima, il Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) ha già riconosciuto ai sindacati di regime il monopolio della rappresentanza sindacale, ma ne ha al contempo interdetto la presenza nei luoghi di lavoro, lasciati al totale controllo degli imprenditori.
La legge del 1926 sulla disciplina contrattuale completa il nuovo quadro normativo, dando inizio al "lungo viaggio attraverso il fascismo" della classe operaia italiana.
Un percorso sottoposto alla stretta sorveglianza delle gerarchie di fabbrica e dello Stato, alla quale i lavoratori reagiscono scivolando in un anonimato sociale non immemore del passato, come testimoniano le periodiche agitazioni e una freddezza verso il regime segnalata in molti rapporti di polizia, come quello che, nel marzo 1936, scrive a proposito della maestranza Fiat: “essa è rimasta quella che era, cioè socialista e comunista per convinzione”.
Il limitato consenso riconquistato dal fascismo (forse) grazie alle provvidenze sociali introdotte negli ultimi anni Trenta non va comunque oltre l'ingresso in guerra nel giugno 1940.
Originata dal pesante peggioramento delle condizioni di vita, la massiccia ripresa delle lotte di fabbrica scandisce l'ultima fase della parabola del fascismo.
I primi scioperi scoppiano alla Fiat nel marzo 1943, per diffondersi subito dopo ai principali stabilimenti del Nord.
Le agitazioni proseguono nel settembre dello stesso anno e poi nel 1944 (gennaio, marzo, giugno), caricandosi via via di contenuti politici.
A guidarli sono gli esponenti di una fitta rete di organismi sindacali, politici (i Cln) e militari (le Sap) che si vanno formando nelle aziende e tra i quali i ruoli sono spesso sovrapposti: nel biellese, a esempio, sono i capi partigiani a negoziare con gli industriali locali l'accordo sindacale conosciuto come "Contratto della montagna" (novembre 1944).
Nel pomeriggio del 25 aprile 1945 i principali impianti torinesi sono presidiati dalle maestranze, che mantengono il presidio per 2 giorni, fino all'arrivo delle formazioni partigiane.
Nelle altre località della regione la liberazione era già avvenuta nei giorni precedenti, ovunque con la partecipazione dei lavoratori tornati protagonisti della scena sociale.
Fonte: Storia e Cultura dell’Industria
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