Dopo cantare le uova (cantè j euv) ecco cantare Maggio, siamo sempre tra le Langhe e il Monferrato e la tradizione del maggio (del calendimaggio) è antichissima e non è nemmeno una tradizione strettamente langarola. Nasce dalla Grecia classica; è, infatti, una festa, una manifestazione pagana, rappresenta l'esaltazione della vita che si rinnova al ritmo della natura: la primavera come rinascita e maggio come il mese più rappresentativo di questa stagione.
Il calendimaggio è nello stesso tempo gioia di vivere e celebrazione del mito della fecondità. Queste due caratteristiche indissolubili, confermano l'origine pagana di questa tradizione che è stata mantenuta intatta nella sua esteriorità più tipica fino ai primi decenni del nostro secolo.
Sulla piazza del paese si piantava un pino, ornato di nastri e all'ombra delle sue fronde si svolgevano feste, merende, canti e danze. Il pino sembra avere (ai nostri occhi ormai disincantati) lo stesso valore dell'albero della libertà, frutto della rivoluzione francese e istituito da Napoleone Bonaparte, come simbolo di un nuovo paganesimo, o laicismo ad uso nello stesso tempo, politico e culturale.
Negli annali della Curia Vescovile di Alba , si ha notizia che nel 1584 un vescovo, in visita apostolica ad Alba, si sia lamentato per l'abuso di questa festa pagana, festa diffusa in ogni più piccolo paese della diocesi. Questo il rimedio da lui proposto: poiché, infatti, quelle feste erano nate più da una pagana superstizione che non da attione cristiana, invece di loro, si dirizzino delle croci in tutti li cappi delle strade pubbliche.
Nonostante la sincera e comprensibile avversione della Chiesa verso questi riti tradizionali e profani, l'uso si mantenne vivissimo per lungo tempo e ancora oggi i nostri vecchi ne conservano i ricordi di quando erano ragazzi. La forma del calendimaggio più tipica e diffusissima in Langa era questa. Tre fanciulle giravano di porta in porta, il primo maggio (a volte anche in altre domeniche del mese); quella di centro, la sposa di maggio, vestiva in maniera sfarzosa e aveva in testa un delizioso cappellino a larghe falde. Sul seno portava il rametto di pino ornato di nastri.
Le due damigelle che le facevano corona avevano, una un canestro per le uova e l'altra una borsa per i soldi. Mentre di porta in porta attendevano l'offerta in denaro o in natura delle famiglie a cui rendevano visita, levavano il loro canto. L'inizio era conforme al canto delle uova, con le solite strofe adatte ad ogni canto di questua: il saluto al padrone di casa, i complimenti alla gente della famiglia con particolare attenzione alle ragazze. Il punto centrale del cantar maggio rimaneva comunque l'esaltazione della sposa:
E si veuli nen cherdi
che magg a sia rivà,
oh feve a la finestra
lo veddi ben dòbà.
Guardé la nostra spusa
come l'é ben dòbà
luntan sin quanta mjia
a sarà numinà.
Lo scopo della questua era quello di raggranellare qualcosa, magari per il vestito nuovo. Come già nel canto delle uova, non mancano anche quì le imprecazioni e gli avvertimenti se non si ottiene nulla:
Signora la madama
se chila an na da nent
preguma la Madona
ch'ai fassa casché i dent
E nella maledizione, anche se il rito è pagano, viene chiamata in causa la Madonna a significare la solennità e l'importanza dei calendimaggio.
Su tutto, la esaltazione del maggio, ripetuta più volte come un ritornello:
Ben vena magg,
ben staga magg,
tournerouma al meis ed magg!
Il ritornare a maggio, rappresenta una forma di incantesimo, una necessità pagana di ripresentare il maggio anche negli anni a venire con continuità. Più anticamente i doni venivano richiesti in nome di una divinità vegetativa che si credeva incarnato nel maggio, portato dalle fanciulle di casa in casa. Di qui l'abitudine di non negare l'offerta, per non offendere lo spirito vegetativo che in primavera rinasce e dal quale dipendono la fertilità della campagna e la ricchezza dei raccolti. Già presso i Romani, la festa pagana di Attis vedeva il pino tagliato e adornato di bende e ghirlande. Le stesse bende che in Langa adornavano il pino delle ragazze, l'albero, infatti, era carà 'd bej bindlin.
Mirò
(Estratto da "Il platano", rivista di cultura astigiana, Asti, anno III, n. 3, 1978, pp 37-44: Figure, opere e riti della nostra terra)
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