Storia dell’Industria Piemontese, Capitolo 6, dalla seconda guerra mondiale al miracolo economico.
Durante la seconda guerra mondiale, l'industria manifatturiera non dimostra un'efficacia produttiva simile a quella che aveva consentito la vittoria nella Grande guerra. L'impossibilità per il regime fascista di rendere partecipi le maggiori forze produttive della nazione agli obiettivi del conflitto, fa sì che il comparto manifatturiero non si riveli in grado di sostenere lo sforzo bellico i cui esiti sarebbero stati comunque compromessi da scelte militari errate compiute in un quadro di sostanziale marasma organizzativo.
L'industria italiana non può produrre gli armamenti necessari alle diverse latitudini in cui è rivolto l'impegno bellico, ciò mentre la rescissione dei rapporti di mercato con le principali fonti di approvvigionamento di materie prime e con alcuni tra i maggiori acquirenti delle esportazioni italiane, pone limiti invalicabili alla crescita industriale. L'ondata di distruzione durante gli ultimi anni del conflitto colpisce il paese e la sua popolazione con durezza estrema.
I danni materiali maggiori si verificano nei confronti delle infrastrutture e del patrimonio abitativo, mentre gli impianti industriali, collocati in netta prevalenza nell'Italia settentrionale, sono in gran parte risparmiati dalla furia bellica. Le grandi imprese che avevano avviato, nel settore meccanico, nell'industria elettrica, in quella chimica e della gomma, importanti processi innovativi non mutano rotta. Le premesse poste durante il fascismo per un cambiamento di prospettiva del sistema industriale verso la produzione standardizzata di beni di consumo di massa, sono, dopo la guerra, ancora operanti
Il conflitto non imprime però un'accelerazione né stimola un salto tecnologico e dimensionale dell'apparato industriale. La repubblica italiana eredita quindi un paese in difficoltà economiche a cui si sommano gli scompensi dovuti alla divisione in due del paese nei lunghi mesi in cui intere regioni durante la lotta al nazi-fascismo sono state scenario di devastanti scontri a fuoco. Inoltre le imprese manifatturiere, soprattutto nel campo dell'industria meccanica, devono affrontare la difficile riconversione dalle produzioni belliche a quelle destinate a un'economia di pace.
L'industria manifatturiera ricomincia a crescere dopo la guerra nonostante i consumi privati siano molto bassi. Già tra 1949-51 la produzione industriale cresce a un ritmo superiore al 13% annuo, grazie anche agli effetti del piano di sussidi americani European recovery program che dall'aprile del 1948 avvia la fornitura di beni e la corresponsione di prestiti a tassi agevolati nell'ambito del quale l'industria piemontese ottiene una quota di aiuti addirittura superiore al suo peso nell'economia del paese e in particolare la Fiat può riattivare e sviluppare i propri impianti.
Tra le altre imprese maggiori destinatarie del programma nell'area subalpina vi sono Ceat, Cogne, Officine Savigliano , Cartiere Burgo, Sip , Aem e Riv. Nella penisola il consumo industriale di energia elettrica cresce, tra il 1951 e il 1960, del 125% e aumenta sia la produzione di settori di base, come l'acciaio (+230%), il cemento (+256%) e il petrolio (+460%, per le benzine), sia la fabbricazione di beni di consumo durevole, come le automobili (+630%), le macchine per scrivere (+360%) e le macchine per cucire (+95%). I settori tradizionali come l'abbigliamento e l'alimentare acquisiscono i caratteri propri di una industria moderna.
Negli anni 1960 nel gruppo di testa delle pochissime grandi imprese manifatturiere italiane vi sono le piemontesi Fiat e Olivetti che dominano il proprio segmento di mercato costituendo il polo di attrazione per grappoli di imprese minori. A queste seguono nella regione nuclei di imprese medio-grandi che operano in settori in rapida espansione come l'alimentare - è il caso della Ferrero di Alba - o l'abbigliamento, come Miroglio ad Alba e il Gruppo Finanziario Tessile.
La Fiat e l'Olivetti appaiono ormai sistemi complessi: dopo la guerra la gestione dei grandi organismi produttivi non si identifica più solo nel perseguimento delle economie di scala. Il reddito ricavato dall'ordinato susseguirsi delle produzioni in serie non è più un obiettivo sufficiente a giustificare l'azione delle comunità formate da decine di migliaia di lavoratori.
Seppure sulla base di una consapevolezza molto diversa da impresa a impresa, tre problematiche si pongono alla direzione:
1. l'organizzazione del consenso interno all'azienda e il coinvolgimento negli scopi aziendali di una moltitudine di persone le cui funzioni sono esplose in una gamma vastissima di compiti e ruoli;
2. le relazioni che la grande impresa è indotta a instaurare con l'ambiente in termini di interscambio di servizi, gestione e amministrazione del territorio, organizzazione del tempo libero e della vita esterna all'azienda;
3. necessità di concorrere alla programmazione dello sviluppo economico nazionale all'inseguimento dei nuovi modelli di consumo che si auspicava si potessero diffondere uniformante nel paese.
Le vetture costruite dalla Fiat, che per tutti gli anni 1950 e 1960 rappresentano circa il 90% della produzione nazionale, superano nel 1959 le 100.000 unità, e nel 1954 toccano quasi le 200.000 unità. A queste si affiancano le automobili, progettate per una fascia di pubblico più ristretta, costruite nello stabilimento Lancia di Torino, capace di circa 10.000 vetture annue
A metà degli anni 1950 il difficile confronto con la Fiat porta la Edoardo Bianchi a confluire nella nuova società Autobianchi acquisita nel 1958 dalla Fiat, e la famiglia Lancia a cedere il controllo dell'industria di famiglia a Carlo Pesenti, imprenditore proprietario della Italcementi e della Italimmobiliare, dinamico e spregiudicato operatore negli ambienti finanziari in quegli anni.
La struttura del settore automobilistico e dei veicoli industriali si è così configurata come un duopolio dominato da un colosso privato con un'impresa pubblica minoritaria. Come satelliti più o meno direttamente collegati con la grande casa torinese, si sono sviluppate numerose imprese di piccole e medie dimensioni impegnate nella fornitura di componentistica e, soprattutto, per i veicoli industriali, nell'assemblaggio e nella carrozzeria di mezzi di trasporto indirizzati a nicchie di mercato.
La crescita dell'industria meccanica provoca l'espansione degli acquisti all'estero di macchine utensili. I grandi complessi industriali come Fiat e Olivetti sviluppano proprie divisioni specializzate nella produzione di macchine utensili per le proprie necessità che, come nel caso della Officine meccaniche Olivetti (Omo), avviano le forniture anche all'esterno del gruppo. Comunità di imprese piccole e medie avviano la conquista di nicchie di mercato per macchine utensili specializzate o per singole parti ponendo le basi per la formazione di quello che presto diviene uno dei punti di forza delle esportazioni italiane.
A Torino e in altre città del Piemonte negli anni Sessanta sono attive in questo campo, oltre ai due gruppi maggiori, imprese quali le Officine di Savigliano, Moncenisio, Nebiolo, Elli & Zerboni, Cimat, Graziano, Morando, e nel campo delle tecnologie ottiche di precisione, incluse le macchine cinematografiche, la Microtecnica, fondata nel 1929.
In pochi anni la Fiat consegue il duplice risultato di raggiungere i vertici dell'industria automobilistica europea e di motorizzare il paese: in media negli anni 1960 ogni famiglia italiana possiede una vettura, sia pure di cilindrata molto piccola. La produzione di macchine per ufficio era cresciuta grazie allo sviluppo della Olivetti, che domina il settore in Italia.
A fianco della motorizzazione di massa e della diffusione delle macchine per ufficio, la vigorosa espansione dell'industria degli elettrodomestici dimostra un'analoga capacità modernizzante per la vita delle famiglie italiane. Anche in questo settore l'industria nazionale riesce a recuperare il divario che la separava dai maggiori produttori mondiali, inserendosi in una posizione di rilievo sul mercato internazionale e in particolare all'interno della Comunità Economica Europea, l'antesignana dell'Unione Europea.
La tecnologia semplice eaccessibile, unitamente ai moderati investimenti iniziali, portano il settore a crescere attorno a un piccolo gruppo di imprese dinamiche a specializzazione non esclusiva. In particolare la produzione di "elettrodomestici bianchi" (frigoriferi, lavabiancheria e lavastoviglie) si impone per prima in conseguenza all'adozione di soluzioni costruttive originali, che permettono alle imprese dell'Italia settentrionale di reggere positivamente la concorrenza internazionale sul fronte dei costi.
In Piemonte sono attive la Westinghouse, la Magnadyne, la Castor, l'Aspera-Frigo e la Indesit (Industria italiana elettrodomestici). Alla fine degli anni Trenta e poi nell'immediato dopoguerra erano stati però i frigoriferi prodotti dalla Fiat a Mirafiori ad essere tra i primi elettrodomestici a entrare nelle case italiane: dal nord al sud, dalla città alla campagna. L'impegno della Fiat sarebbe stato poi rapidamente sostituito dalle imprese specializzate nel settore degli elettrodomestici bianchi affiancate dalle produzioni di radio e, dal 1957, di televisori e telefoni.
La dotazione di oggetti comunemente diffusi negli appartamenti urbani dei ceti medi cresce sempre più. Poco invece cambia per gli acquisti di vestiario, e per quelli alimentari, i supermercati avrebbero fatto la loro timida comparsa solo alla fine del decennio 1950. Le produzioni tradizionali, laniera nel biellese e cotoniera in altri distretti piemontesi come il Canavese, attraversano anni non sempre facili, tra cui significative sono le difficoltà del il Cotonificio Valle Susa. La novità di questi anni è però la crescita della produzione di abiti confezionati: il Gruppo Finanziario Tessile incrementa le vendite dei marchi Facis e Cori.
Anche nel campo dell'industria alimentare è notevole la crescita di nuove produzioni in serie di alimenti confezionati vi sono gli impianti Pavesi, Maggiora, Wamar, Saclà , Talmone, ma è soprattutto la P. Ferrero e C. di Alba a guidare il percorso di modernizzazione avviando la produzione di cioccolato a basso prezzo combinato con surrogati e assumendo presto una struttura multinazionale con stabilimenti produttivi in Francia e Germania.
Nel campo della produzione vinicola speciale sono in sviluppo le tradizionali presenze come la Cinzano , Martini & Rossi , Cora e Carpano.
In questi anni quindi, mentre la crescita impetuosa della Fiat, porta Torino ad ampliare le proprie periferie assumendo i caratteri della company town, il sistema industriale regionale cresce confermando la propria vocazione multiforme e polisettoriale. In questa direzione, la crescita dell'industria chimica completa il panorama manifatturiero piemontese. Le presenze più significative sono, nel campo farmaceutico, la Farmitalia e la Schiapparelli; in quello delle fibre artificiali, la Snia; mentre nella lavorazione della gomma sono presenti filiali della Michelin e della Pirelli al fianco della Ceat e della più piccola Superga.
A questa si devono aggiungere la Saint Gobain per la produzione di vetro, la Unicem e la Cementir per quella di cemento. Un posto a sé è poi occupato dalla Montecatini (dal 1966 Montedison) che a Novara può contare su un impianto per la produzione di ammoniaca e della sede di un prestigioso centro ricerche, l'Istituto Guido Donegani, dal nome del fondatore della famosa impresa chimica.
Negli anni 1960, 4 milioni di abitanti lasciano il Mezzogiorno. Metà per espatriare, l'altra metà per trasferirsi nell'Italia del centro-nord. La grande maggioranza si trasferisce in Lombardia e Piemonte. Queste due regioni attraggono popolazione anche dall'Italia orientale, soprattutto dal Veneto. La migrazione interna è un fenomeno avviato negli anni 1920 e 1930. Fino ad allora l'urbanizzazione avviene soprattutto attraverso la capacità dei grandi centri urbani di attrarre popolazione dalle campagne e dai centri minori circostanti. La crescita degli insediamenti industriali polarizzati su Milano, Torino e Genova mutano drasticamente i meccanismi migratori.
Torino cresce più svelta, via via che si entrava nella congiuntura espansiva degli anni 1950-1960, richiamando popolazione da altre regioni del paese, questa volta specialmente dal Meridione: le reti di trasporto e di comunicazione, i nuovi circuiti mercantili e finanziari, il mercato del lavoro, non riguardano più il rapporto tra la città e la campagna circostante ma creano un nuovo reticolo nazionale.
Tutti i link ai capitoli si trovano nel primo post della Storia dell’Industria Piemontese.
Mirò
Fonte: Storia e Cultura dell’Industria
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