venerdì 22 luglio 2011

Andé an carej, legato al lavoro del carrettiere, tra Langa e Monferrato -

Anche le Langhe cambiano. E' nell'ordine delle cose. Del resto è fatale e giusto che nulla rimanga immutato nei tempo, perché vivere e continuare vuol dire prima di tutto cambiare, mutare, evolversi. La Langa cambia per cui alcuni fenomeni, e proprio quelli più tipici della sua stessa esistenzialità muoiono e scompaiono per sempre.

Langa ha sempre voluto dire malora e fatica. Sudore e Miseria. E lavoro, molto, ma con scarsi risultati. Sovente al lavoro tradizionale dei campi, si cercava di aggiungere altre occupazioni per poter sfamare le bocche di casa, per far sorridere quegli occhi tristi che alla sera si trovavano radunati attorno al misero desco di campagna. Una di queste occupazioni che mi ha sempre affascinato è quella del carrettiere.

Intendiamoci, il mestiere di per sé non è langarolo, ma universale, oggi carrettieri sono gli autisti sia quelli italiani che quelli stranieri, con tanto di sigla TIR davanti alla motrice. Carrettiere nel senso di trasportare merci e cose è un mestiere vecchio come il mondo, almeno dalla scoperta della ruota in sù. Ma in Langa carrettiere è stato ben altro. Un lavoro tipico, particolare. Prima di tutto non era una professione, ma un riempitivo.

Si trattava semplicemente di arrotondare i magri frutti dei campi. Da notare la dizione langarola di questo tipico lavoro-palliativo: andé an carej. Non fare il carej (cioè il carrettiere) ma andare in carei, quindi imprestare letteralmente se stesso, buoi e carro per trasportare legna, uva, fieno o letame. A volte (e anche sovente nella stessa annata) andé an carej significava anche far sanmartino, portare masserizie (poche) e speranze (molte) su altre colline o nelle vallate. Un lavoro che serviva ad arrotondare, ma che presupponeva una ricchezza di base indispensabile: possedere un paio di buoi solidi e forti, abituati al tiro a lunga distanza e non era cosa da poco.

Carrettiere

Chi si trovava in stalla questa ricchezza, certamente voleva sfruttarla. E l'unico modo era questo. Usare la coppia di buoi solo per i lavori della terra era sprecato in partenza. In questo caso, meglio farseli imprestare. Fare il carrettiere era anche faticoso, un'occupazione saltuaria, ma redditizia, che aveva però come controparte una maggior dose di fatica e di sudore.

In Langa, per tradizione, la giornata incomincia prima del canto del gallo e anche il carrettiere non fa eccezione. Al mattino presto, meglio ancora nella notte fonda, quando l'alba è ancora di là a venire, aggiogati i buoi, si partiva per lo straordinario: camicia a quadretti e cappello largo, sformato.

Negli occhi il sonno e in mano il guret per vincere la pigrizia dei buoi, ma molto di più per combattere la stanchezza. Un colpo alle bestie e un grido. Un colpo a vuoto e un canto solitario e improvvisato. Su tutto il gracchiare delle ruote sul selciato sconnesso. Il borgo intanto, dormiva ancora e il ritmo ossessivo e discontinuo delle ruote sul selciato era il primo rumore che scuoteva le case nere infreddolite di sonno.

Ogni lavoro che si rispetti, presuppone una contropartita, una paga. Erano tempi in cui i soldi mancavano in tutte le case, anche in quelle più solide, per cui si andava in carej facendosi pagare in natura. Il carro partiva vuoto nella notte fonda e ritornava a sera tardi con sacchi di grano, castagne, ceste di uova o con un barilotto di vino.

Il carrettiere era una figura tipica e in ogni paese solo pochi avevano e godevano della fiducia della gente. Solo i più capaci emergevano. E per capacità s'intendeva non aver mai sonno, essere ancora giovani, sopportare la fatica, ma, soprattutto, conoscere le bestie. Avere un paio di buoi robusti, non significava essere anche uomini di carej.

Sacrificio e conoscenza del mestiere. Solo questo contava. Si narra di uomini che vivevano nella stalla accanto alle proprie bestie. Conoscevano del bue vita e miracoli e un buon carrettiere, si diceva anche, non conosceva veterinari. Il bue sembrava stanco, non tirava più? Bastava un'erba dei boschi ed ecco che tutto tornava a posto.

Al sabato santo si prendeva il giogo di legno e lo si bagnava nell'acqua, tenendolo fino al suono del Gloria. Era di buon auspicio. Importante era anche vestirsi da carej e la camicia rozza, ma sempre pulita, a quadri, diventava una divisa, un simbolo. E poi la libertà. Soli nella notte, un lavoro lontano da casa, un senso di liberazione anche se uomini e bestie erano sommerse dalla fatica. Il sudore sulla fronte, ma la libertà nel cuore.Andare in carej  era anche questo!

 

     Mirò

(Estratto da "Il platano", rivista di cultura astigiana, Asti, anno III, n. 3, 1978, pp 37-44: Figure, opere e riti della nostra terra)

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